Quindi prima di giudicare testi e mise di scena; prima di storcere il naso di fronte alle rime in italiano maccheronico dell’estone Tommy Cash (Ciao bella, I’m Tommaso / Addicted to tobacco / Me like mi coffee very important – da quella perla di saggezza pop che è il brano Espresso macchiato); prima di sobbalzare sulla poltrona agli acuti degli azeri Mamagama; prima di alzare il sopracciglio alla vista dell’armatura finto-medievale del diciannovenne norvegese Kyle Alessandro; prima di criticare la techno fuori tempo massimo del belga Red Sebastian; prima di inorgoglirci di fronte alla pacatezza del nostro Lucio Corsi e canticchiare Tutta l’Italia con Gabry Ponte (in corsa per San Marino), proviamo ad andare alle radici. E se oggi la sua estetica esagerata e un po’ tamarra ci fa sorridere, sorridiamo pure: ma ricordiamoci che tutto questo gran spettacolo - lo “show musicale più visto al mondo”, come ieri sera è stato a più riprese ricordato dalle due presentatrici, Hazel Brugger e Sandra Studer - è nato come una strategia di inclusione, un modo per provare a costruire un linguaggio comune a suon di lustrini e ritornelli da cantare anche senza capirne le parole. Più che una semplice rassegna musicale, l’Eurovision Song Contest - sostiene Vuletic - è stato un laboratorio simbolico di Europa: «La parola Eurovision fu il primo esempio dell’utilizzo postbellico di prefissi come Eur- o Euro- per denominare progetti e organizzazioni internazionali: di lì a poco, ad esempio, nacque l’EURATOM, istituito nel 1957 dagli stati membri della CECA».
Author: di Crisitana Gattoni
Published at: 2025-05-14 13:16:41
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