Un agente di polizia gli tiene premuto il ginocchio contro il collo, ed ecco che George Floyd inizia a contorcersi, annaspa, non riesce a respirare, infine muore: muore di una morte naturalmente registrata dai passanti e subito condivisa via social, diventando celebre in qualunque angolo del pianeta e, cosa ancora più rilevante, venendo presa e risemantizzata da numerosi gruppi, specie quelli afferenti alla sigla Lgbtq+, che leggono in quel destino il proprio percorso di oppressione. Dalle sue osservazioni, pubblicate su Unherd in un pezzo che sta facendo storia, emerge quanto il dibattito woke a antiwoke, diventato ora più una distorsione che una possibilità comunicativa, abbia svuotato o perfino cancellato quegli spazi di espressione e valorizzazione tanto duramente conquistati dalle persone di colore, la cui identità è ora dibattuta ricorrendo a due opposti, e cioè o con estrema sofferenza o con ancor più estrema insofferenza (il che è una contraddizione assoluta, promettendo il woke la lotta a ogni binarismo). Non è nemmeno un caso che in italiano fatichiamo ancora a utilizzare gli equivalenti delle parole inglesi "whiteness" e "blackness" (ovvero "l'essere bianchi" e "l'essere neri"), quasi si avesse vergogna o paura di servirsene, quando paradossalmente è proprio usandola una parola che si dà legittimazione alla realtà che esprime.
Author: redazione@ilgiornale-web.it (Angela Bubba)
Published at: 2025-11-25 09:00:03
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