La poesia italiana, in virtù di Dante, suo fondatore, e fondatore del canone occidentale, maestro di plurilinguismo, di altezze sublimi e di infernali bassezze, fedele all'amore in tutti i suoi aspetti sino al più salvifico e divino, può contenere tutto, oro e fango, estasi e lussuria, introspezione e slancio, danza e impegno civile, raffinatezza e carnalità: sa essere dalla parte di Amleto o di Falstaff, per dirla con William Shakespeare, l'altro fondatore del canone secondo Harold Bloom. Dopo la folgorante sintesi dal Gotico a oggi, che vale cento polverosi libri di storia letteraria scritti da diligenti studiosi, Milo De Angelis, nel paragrafo finale, quando si avvicina al contemporaneo, fa coraggiosamente e giustissimamente pochi nomi: Giuseppe Ungaretti, Antonia Pozzi, Franco Fortini, Mario Luzi, Vittorio Sereni, Eugenio Montale, concludendo con Cesare Pavese, lo stesso con cui chiudeva la sua celeberrima e studiatissima storia della letteratura italiana Natalino Sapegno, ma ribaltando il Pavese neorealistico in un Pavese «profetico», «sovrano del ritorno», una meraviglia per chi come me legge Lavorare stanca con un occhio alla potenza di Walt Whitman e al segreto del mito. Ci ho trovato (perché il lettore può inoltrarsi nell'antologia come in una foresta, e fermarsi all'ombra degli alberi a lui cari) Ambrogio Viale, il ligure di Cervo con i suoi sonetti preromantici, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi con la sua meravigliosa Quando ci rivedremo, Mario Novaro con le sue liriche acuminate di pensiero e di luce, e poi Boine, Sbarbaro, persino De Amicis e Remigio Zena.
Author: redazione@ilgiornale-web.it (Giuseppe Conte)
Published at: 2025-11-25 07:00:10
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